Cos’è la sindrome dell’impostore: descrizione, cause e soluzioni

maschera

Quando si verifica la sindrome dell’impostore?

Questa sindrome si verifica ogni volta che una persona raggiunge un obiettivo significativo nella propria carriera, indipendentemente dal settore o dal ruolo.

Chi ne è colpito?

In passato, sembrava che questa sindrome riguardasse principalmente le donne di successo, ma ricerche recenti hanno dimostrato che colpisce trasversalmente uomini e donne. Circa l’82% della popolazione ha sperimentato o sta ancora vivendo questa sindrome.

Sintomi dell’impostore

I sintomi includono un senso di inadeguatezza rispetto ai compiti completati e la costante paura di essere scoperti. La sindrome dell’impostore spesso porta a depressione, ansia, insoddisfazione lavorativa e burnout.

Possiamo chiamarla diversamente?

L’esperienza dell’impostore può essere considerata un Super-Io freudiano che limita l’autostima. Tuttavia, ridenominarla potrebbe offrire nuove prospettive e soluzioni.

Soluzioni proposte

Jessica Vanderlan, PhD, propone sette strategie per affrontare la sindrome dell’impostore, tra cui apprendere dai fatti, condividere le emozioni, celebrare i successi, lasciare andare il perfezionismo, coltivare l’auto-compassione, condividere i propri fallimenti e accettare la sindrome come una parte normale dell’esperienza umana.

Una soluzione più semplice

Dalla mia esperienza clinica in psicoterapia, ho osservato che la soluzione alla sindrome dell’impostore può essere più semplice e meno impegnativa delle sette strategie proposte da Vanderlan.

Le persone affette da questo problema non solo si sentono indegne del successo, ma spesso respingono anche regali e complimenti. Invece di accettarli, tendono a giustificarsi, alimentando così il circolo vizioso della sindrome dell’impostore.

Una soluzione efficace è iniziare a dire “grazie” anziché attribuire il successo alla fortuna. Questo piccolo cambiamento nel linguaggio può interrompere il ciclo negativo e favorire una migliore autostima e fiducia in sé stessi.

Contattami se vuoi saperne di più e se ha trovato questo articolo interessante puoi anche leggere: essere single oggi

Bibliografia

Dena M. Bravata, et.al. “Prevalence, Predictors, and Treatment of Impostor Syndrome: a Systematic Review” J Gen Intern Med. 2020 Apr; 35(4): 1252–1275.

Clance PR, Imes SA. The imposter phenomenon in high achieving women: Dynamics and therapeutic intervention. Psychother Theory Res Pract. 1978;15(3):241–7.

Hawley K. Feeling a Fraud? It’s not your fault! We can all work together against Imposter Syndrome [Internet]. 2016 [cited 2019 April 16] June 1, 2021 Vol. 52 No. 4  American psychological association

Wikipedia: Socrate “sapere di non sapere”

Essere Single e psicoterapia: affrontare le sfide della vita da soli

numero uno che indica essere soli e single

Sempre più frequentemente, nel mio studio di psicoterapia, incontro persone che si trovano nella condizione di essere single. Essere single può essere il risultato di una varietà di situazioni, come una rottura, un tradimento o semplicemente la difficoltà nel trovare un partner con cui condividere la vita.

In questo articolo, ne seguiranno altri sul tema, ci concentreremo sulle persone che cercano attivamente una relazione, escludendo coloro che si definiscono “felicemente single” o che, come recentemente espresso da Emma Watson in un’intervista per British Vogue, si identificano come “self-partnered”, ovvero come partner di se stessi.

Essere single oggi

Essere single oggi solleva molte domande e riflessioni su cosa significhi culturalmente e come sia riflesso nella società contemporanea. I cambiamenti nelle strutture familiari, le variazioni culturali e l’empowerment individuale sono solo alcuni degli aspetti che vengono considerati.

Per capire meglio la portata di questa situazione, possiamo considerare alcuni dati. Secondo l’ultimo rapporto ISTAT, le persone single sono in numero maggiore rispetto alle famiglie, con una persona su tre che vive da sola. Ciò solleva una domanda importante: se le persone single sono così numerose, perché sempre più persone si rivolgono a professionisti come me per affrontare questo problema e perchè faticano a trovare una persona con cui condividere la vita?

Social media

I social media e l’iperconnettività digitale potrebbero offrire l’illusione di un’ampia disponibilità di potenziali partner, ma spesso la realtà è diversa. La ricerca di una connessione autentica e significativa può essere difficile in un mondo in cui le relazioni superficiali e le aspettative irrealistiche sono diffuse.

Soluzioni possibili

La psicoterapia può essere un prezioso alleato per le persone single che desiderano esplorare le loro esperienze e sentimenti legati alla singletudine. Offre uno spazio sicuro per esplorare i pensieri, le emozioni e i modelli di comportamento che possono influenzare la vita amorosa e le relazioni personali.

Attraverso la psicoterapia, è possibile sviluppare una maggiore consapevolezza di sé, imparare a gestire la solitudine in modo sano, affrontare eventuali blocchi emotivi o psicologici che possono ostacolare la ricerca di una relazione significativa e migliorare le capacità comunicative e relazionali.

Conclusioni

In conclusione, essere single non è necessariamente una condizione negativa, ma può comportare sfide emotive e sociali. La psicoterapia offre un sostegno prezioso per affrontare queste sfide, promuovendo la crescita personale e aiutando le persone single a vivere una vita soddisfacente e appagante, sia che trovino un partner romantico o che scelgano di continuare il proprio percorso da soli.

Contattami se vuoi saperne di più e se ha trovato questo articolo interessante puoi anche leggere: scelta o dubbio ossessivo?

Dena M. Bravata, MD, MS,1,2 Sharon A. Watts, MA,2,3 Autumn L. Keefer, PhD,2 Divya K. Madhusudhan, MPH,2 Katie T. Taylor, PhD,2,3 Dani M. Clark, BA,2,3 Ross S. Nelson, PsyD,2,4 Kevin O. Cokley, Ph.D.,5 and Heather K. Hagg, “Prevalence, Predictors, and Treatment of Impostor Syndrome: a Systematic Review” J Gen Intern Med. 2020 Apr; 35(4): 1252–1275. Published online 2019 Dec 17. doi: 10.1007/s11606-019-05364-1

Clance PR, Imes SA. The imposter phenomenon in high achieving women: Dynamics and therapeutic intervention. Psychother Theory Res Pract. 1978;15(3):241–7. [Google Scholar]

Clance PR. The Impostor Phenomenon: When Success Makes You Feel Like a Fake. Atlanta: Peachtree Publishers; 1985. [Google Scholar]

Hawley K. Feeling a Fraud? It’s not your fault! We can all work together against Imposter Syndrome [Internet]. 2016 [cited 2019 April 16].

Vivere meglio: il progetto che promuove l’accesso alla psicoterapia

psicologo e psicoterapeuta

Aiuto per i disturbi mentali comuni

Oggi vi voglio parlare dell’iniziativa “Vivere Meglio”, già presentata a fine Settembre, da parte di ENPAP e fatta in collaborazione con diciannove università italiane con Padova come capofila. Eccovi l’elenco delle università:

TorinoGenovaMIlano “Cattolica”Milano “Bicocca”
BergamoPadovaBolognaFirenze
L’AquilaLecceRoma “La Sapienza”Roma “Cattolica”
CasertaFoggiaRoma “Europea”Napoli “Federico II”
PalermoCataniaSalerno

Vivere meglio” è infatti il nome del progetto che mira a ridurre il divario attuale che penalizza le persone economicamente svantaggiate che intendono avvalersi di uno psicologo e/o psicoterapeuta. Per la differenza dei ruoli si rimanda alla pagina del progetto al link oppure all’ordine nazionale psicologi.

Obiettivi

Obiettivi di interesse comune che il progetto si prefigge sono:

  • favorire l’accesso da parte della popolazione alle terapie psicologiche più adatte per i disturbi mentali;
  • fornire informazioni chiare, comprensibili ed aggiornate sulle caratteristiche dei disturbi mentali comuni e sul fatto che i trattamenti psicologici disponibili sono efficaci e spesso rappresentano la prima scelta;
  • sensibilizzare e motivare le persone, affette da questi disturbi o che presentano sintomi sottosoglia o che, comunque, vivono una condizione di crisi e di disagio psicologico, a intraprendere un percorso diagnostico e di trattamento;
  • ridurre lo stigma verso i disturbi e i trattamenti psicologici.

I disturbi mentali comuni di cui si parla sono ansia, nelle sue varie sfaccettature, e depressione. Questi sono aumentati del 25% dal 2019 ad oggi. Stress, solitudine, precarietà hanno contribuito alla limitazione della vita sociale e lavorativa. 

Il progetto intende coordinarsi, a più livelli, con le strutture del SSN e si pone in naturale linea di continuità con la “Consensus Conference sulle Terapie Psicologiche per Ansia e Depressione” che ha lo scopo di promuovere la diffusione degli interventi più efficaci per ansia e depressione.

Dove nasce

La “Consensus Conference sulle Terapie Psicologiche per Ansia e Depressione” (CC) definisce Terapie Psicologiche “tutte le terapie che utilizzano mezzi psichici per risolvere o ridurre i sintomi e il disagio associati ai disturbi d’ansia e depressivi” e ricorda che in Italia la psicoterapia è esercitabile esclusivamente dai professionisti, psicologi iscritti nell’apposito elenco previsto dall’art.3 della Legge 56/89. 

Vivere meglio si è sviluppato a partite dal IAPT (Improving Access to Psychological Therapies) inglese che al momento garantisce ad un milione di cittadini britannici assistenza psicologica qualificata e gratuita. L’impostazione è quella dello “stepped care” inglese. Con tale termine si definisce la gradualità dell’intervento che va dalla somministrazione di opuscoli per problemi non significativi ad una psicoterapia per disagi invalidanti.

Il sottoscritto ha aderito con il suo studio di Rovigo a questo progetto, pur essendo di  orientamento breve strategico, perchè ritengo che combattere lo stigma e aiutare le persone sia importante.

Prenota un appuntamento seguendo le indicazioni sul sito di “Vivere meglio”, oppure contattami per informazioni.

Depressione: la spiegazione non sta nella serotonina

depressione e serotonina

In un articolo pubblicato a Luglio di quest’anno nella rivista Molucular Psychiatry, Moncrieff, J., Cooper, R.E., Stockmann, T. et al., hanno svolto un “umbrella review”, ovvero una meta-analisi di un largo numero di ricerche il cui argomento era la serotonina e la depressione.

Obiettivo della meta-analisi era verificare la teoria secondo cui serotonina e depressione sono strettamente correlate. Che ci fosse uno squilibrio del livello di serotonina dietro la depressione è stato suggerito per la prima volta nel 1960 da Coppen A., e pubblicato in The British Journal of Psychiatry. Intorno agli anni 90, con ricerche più specifiche, è stato poi introdotto un altro elemento. Fece la sua comparsa infatti l’inibitore selettivo della serotonina (SSRI), su cui poi saranno sviluppati i farmaci antidepressivi.

Sebbene la teoria che ci sia uno squilibrio chimico della serotonina a causa delle depressione sia stata recentemente messa in discussione, vedi “Serotonina e depressione” nel British Medical journal e “Il nuovo cervello della psichiatria e la leggenda dello squilibrio chimico” nel Psychiatric Times , essa mantiene ancora una certa forza. La si trova in molti libri di settore, se ne parla da così tanto tempo da diventare convinzione in gran parte della popolazione, ed è confermata dall’uso di antidepressivi, sia come azione all’apparenza diretta che come effetto placedo sulle emozioni.

Sono state prese in considerazione sei grandi aree come, presenza della serotonina nel sangue, ruolo dei recettori, fino ad arrivare alla genetica, per un totale di circa 20 ricerche le quali vantavano anche un copioso numero di soggetti sperimentali, circa 800 di media.

Scarse evidenze sperimentali della correlazione tra squilibrio della serotonina e depressione sono state trovate, così come debole è il ruolo della “genetica” nella depressione.

Il risultato rafforza l’idea che un disagio psicologico è di più che un semplice squilibrio chimico. Altri fattori intervengono come quelli personali, ambientali, sociali, nonché le tentate soluzioni disfunzionali che la persona adotta per risolvere il problema.

Il dato è confermato anche dal mio lavoro di psicoterapeuta breve strategico, oltre che da quello dei colleghi. Si rivolgono a me persone che con i farmaci non hanno risolto il problema anzi, generalmente i farmaci sul lungo termine lo alimentano perché anch’essi diventano una tentata soluzione disfunzionale.


Con ciò non voglio dire che le terapie farmacologiche siano inutili, ma che devono essere quantomeno abbinate ad una psicoterapia efficace.

La complessità della mente e delle nostre emozioni, mal si addice alla visione medica del tipo causa-effetto, ove tutto si spiega e si risolve tramite una molecola, senza tener in considerazione molti altri fattori.

Per maggiori informazioni o per fissare un colloquio presso uno dei miei studi di Padova o Rovigo contattami agli indirizzi che trovi sul sito.

Instagram Terapia? Facciamo chiarezza

instagram terapia

Riprendendo un vecchio articolo di Whitney Goodman in cui si parla di Instagram terapia, nell’era dei social media stiamo assistendo ad una rivoluzione per quando riguarda il campo della salute mentale. Sempre più psicologi e psicoterapeuti usano le piattaforme social per rendere le informazioni sulla salute mentale accessibili a chiunque oltre che per promuovere i propri servizi.

Svariati articoli hanno definito questo fenomeno come “instagram terapia” fuorviando così l’intento di molti psicologi e psicoterapeuti e rendendo confusi gli utenti.

In particolare Instagram è stato considerato negli studi il peggiore fra i social media. Porterebbe a immagini corporee negative, ansia, depressione e aumento degli episodi di bullismo per citarne alcuni.

Sembra un paradosso quindi, che psicologi e psicoterapueti lo stiano usando sempre più spesso.

Come tutti gli strumenti instagram non è intrinsecamente negativo, ma lo è piuttosto il nostro modo di fruirne così come dell’uso che facciamo delle informazioni in esso contenute.

Persone con scarse possibilità di accesso a informazioni sulla salute mentale, ora invece possono grazie proprio ai social media.  

Molte critiche sono state avanzate sull’uso di instagram sia fondate sulla realtà dei fatti, sia solo sulla paura. Piuttosto che cercare una ragione sulla presenza dei professionisti o meno, o sull’uso stesso del social media bene sarebbe, secondo la mia opinione, ridisegnare una mappa etica del loro uso. Ci sarebbero così delle linee guida che garantirebbero buona qualità e standard dei contenuti postati.

Possiamo notare comunque come già molti professionisti adottino una certa etica, grazie alla loro formazione ed esperienza professionale. Al contrario altri, precorrono i tempi, magari per paura di perdere folowers, e rischiano così di dare informazioni poco adattate al loro pubblico. Per non parlare poi di chi tratta temi di pertinenza dello psicologo senza averne titolo.

Le informazioni contenute nei post sono spesso generalizzate e non si possono adattare a tutte le persone, così come non c’è modo di sapere come l’altra persona interpreterà il nostro messaggio. Nostro compito è essere espliciti sul fatto che il consiglio che diamo o il problema di cui parliamo è di carattere generale e non sempre rispecchia la situazione in cui l’utente si trova.

Correttezza, onestà intellettuale, etica e rispetto delle persone che interagiscono con noi è ciò che dovremmo mettere nel momento in cui facciamo un post. Così come devono esser chiari i canali attraverso cui una persona ci può contattare. Il fine è quello di non trasformare situazioni di emergenza in tragici eventi perché mal gestite.

Come professionisti abbiamo ora la capacità di introdurre argomenti importanti su questa piattaforma, rendendo le persone più consapevoli, contrastando così anche la mala-informazione.

Instagram non sostituisce la terapia, ma può aiutare le persone

Vi lascio con alcuni consigli utili:

seguiamo solo persone che siano chiare nei loro intenti e con titoli certificati

facciamo sempre un’analisi critica dei contenuti

ricordiamo che i contenuti sono generalizzati e non sempre sono adatti a noi

instagram non è un sostituto della terapia e poco affidabile in caso di emergenza

se hai bisogno del terapista contattalo attraverso i canali formali

Ricorda che la riservatezza non è garantita su instagram

Per informazioni potete scrivere al mio indirizzo email: info@albertocastello.com

https://m.facebook.com/dralbertocastello

https://www.instagram.com/dralbertocastello/

Photovoice: la narrazione fotografica a favore del benessere mentale, fisico e di comunità

ansia superata con la fotografia

Stavo seguendo un workshop di crescita personale, e studio delle proprie percezioni ed emozioni, basato sull’autoritratto. Guardare e scegliere vecchie foto di famiglia era uno dei compiti assegnateci. Tutte le volte si guarda una foto, pur essendo l’ennesima volta, si possono cogliere particolari non visti primi. Questi poi, potranno suscitare altri ricordi e generare storie diverse .

Sono così corso in biblioteca alla ricerca delle pubblicazioni in merito agli usi terapeutici della fotografia imbattendomi in quel che viene chiamato “Photovoice”.

Cos’è Photovoice

Photovoice, temine inglese che tradotto letteralmente sarebbe “voce della foto”, è un progetto che mette insieme fotografia e narrazione. Pensato inizialmente come progetto per la comunità, è stato usato anche per aiutare il singolo individuo.

Gli obiettivi principali di Photovoice (Wang, 1999) sono tre: 

  1. rendere le persone capaci di valutare e riportare i punti di forza e di debolezza della propria comunità;
  2. promuovere un dialogo critico, un confronto e una conoscenza a proposito di punti importanti riguardanti la comunità attraverso piccoli o grandi gruppi di discussione;
  3. raggiungere chi fa le leggi

Secondo Wang (Wang, 1999) Photovoice è una via creativa, provocativa, e coinvolgente per comunicare alla società le esperienze di gruppi minori. Attraverso di esso si possono mettere in luce problematiche che vanno, dall’isolamento sociale, passando per la stigmatizzazione, finendo con la salute mentale e i problemi psicologi

Differenze con altri strumenti

Un altro punto fondamentale del Photovoice è il suo uso come strumento d’indagine. La sostanziale differenza con questionari, focus group, interviste, etc,, è il cambio di paradigma. Gli strumenti citati sono costruiti dal ricercatore le cui cose importanti non corrispondo necessariamente ai bisogni della comunità a cui si presenta. In Photovoice invece, è la persona che diventa esperta, oltre che la visione del problema dal suo punto di vista assume un’importanza fondamentale.

Photovoice è uno strumento che insegna a lavorare in gruppo, crea empowerment nelle persone che vi partecipano, riducono ansia, frustrazione e senso d’impotenza.

Il singolo invece può usarlo per descrivere la sua quotidianità, per vedere le sue ansie e problemi da un’altra angolazione e, grazie anche all’auto di un psicoterapeuta, ridefinire ciò che è emerso per risolvere i problemi in sospeso. 

Scrivimi se vuoi parlare di photovoice o vuoi fare un progetto.

Link:

Wang (1999);

Wang C, Burris M, Xiang Y. Chinese village women as visual anthropologists: a participatory approach to reaching policymakers. Soc Sci Med.1996;42:1391–1400. CrossrefMedlineGoogle Scholar

Wang C, Burris M. Photovoice: concept, methodology, and use for participatory needs assessment. Health Educ Behav.1997;24:369–387. CrossrefMedlineGoogle Scholar

Wu K, Burris M, Li V, et al., eds. Visual Voices: 100 Photographs of Village China by the Women of Yunnan Province. Yunnan, China: Yunnan People’s Publishing House; 1995. Google Scholar

Quando la ricerca della felicità ti si ritorce contro

la ricerca della felicità

Impariamo come inseguirla per non farsi intossicare

Continua la mia serie di articoli sulla “positività” , in questo caso sulla felicità e sulla “pop-psychology” di cui invece parlerò in futuro.

Contesto attuale

La corrente sulla “positività” ha ovviamente creato l’illusione che attraverso il pensare positivo si potessero risolvere tutti i problemi. In alcuni casi invece li ha creati, si sta parlando così di “positività tossica”. Sentirsi felici è una buona cosa, ma enfatizzare eccessivamente l’importanza di un atteggiamento positivo può ritorcersi contro, portando paradossalmente a sentirsi infelici.

Le ultime ricerche del gruppo mostrano che le persone più felici tendono a vivere più a lungo, a essere più sane e a godersi una vita di maggior successo. Fra queste “i molto felici” hanno più di vantaggi dei “mediamente felici”. La ricerca mostra anche come se perseguita in certi modi, la felicità o la positività possono diventare tossiche.

La ricerca, pubblicata su The Journal of Positive Psychology  da Ashley Humphreya, Rebecca Szoka e Brock Bastiane che ha coinvolto quasi 500 persone, è stata ispirata da questi risultati apparentemente incoerenti: perseguire la felicità può essere sia positivo che negativo per il nostro benessere. Il loro scopo era trovare ciò che trasforma la positività da salutare in tossica.

Aspettarsi il meglio, sentirsi peggio

Se attribuiamo un valore troppo elevato alla nostra felicità, soprattutto nei contesti in cui dovremmo sentirci felici, porta ad un minore intensità di questo stato. Spesso poi rimaniamo delusi e ci colpevolizziamo aggiungendo così sentimenti di tristezza.

Riporto la frase di una vignetta di Randy Glasbergen che raffigura un paziente che si confessa al suo psicologo:

“Sono molto, molto felice, ma voglio essere molto, molto, molto felice, ed è per questo che sono infelice”

Quindi che fare? Dare priorità alla nostra felicità futura invece che momentanea così da sperimentare miglioramenti invece che deficit. Tradotto in fatti significa impegnarsi in attività che hanno un senso per noi, così che la felicità arrivi indirettamente e non sia l’obiettivo primario di ciò che facciamo.

Valorizzare la felicità vs dare priorità alla positività

La ricerca della dr.ssa Hashley e colleghi per ottenere una migliore comprensione di ciò che rende la positività tossica hanno confrontato due approcci: valutare la felicità e dare priorità alla positività.

Alcune affermazioni sul valore della felicità erano: “Sono preoccupato per la mia felicità anche quando mi sento felice” o “Se non mi sento felice, forse c’è qualcosa che non va in me”.

Nella colonna della priorità alla positività c’erano frasi come “Strutturo la mia giornata per massimizzare la mia felicità” o “Cerco e coltivo le mie emozioni positive”.

I ricercatori hanno infine anche incluso una misura del disagio che le persone hanno con le proprie emozioni negative. Per fare ciò sono state introdotte affermazioni come “Mi vedo fallire nella vita quando mi sento depresso o ansioso” o “Mi piaccio meno quando mi sento depresso o ansioso”.

I risultati

Chi ottenne un punteggio alto nel valutare la felicità (aspettativa di felicità) viveva le emozioni negative rifiutandole e come un segno di fallimento nella vita e non. In parte questa era anche la ragione per cui queste persone avevano livelli di benessere inferiori. Le persone invece che si focalizzavano sulla positività delle piccole cose quotidiane (punteggio alto sulla scala priorità della positività), erano più inclini ad accettare le loro emozioni negative.

Cercare di mantenere alti livelli di felicità per tutto il tempo è quello che dovremmo evitare di fare. La miglior cosa è apprezzare appunto le piccole cose quotidiane e pensare alla felicità futura. Potremmo scrivere il nostro diario delle belle cose quotidiane.

Cosa rende tossica la positività quindi?

Atteggiamento, o per dirla diversamente la nostra reazione ai fatti è la chiave per evitare di rendere tossica la positività. La cosa importante quindi non è cosa ci accade, ma cosa facciamo con ciò che ci accade.

Parafrasando un grande scrittore Haruki Murakami “l’evento negativo è inevitabile, ma soffrire per esso è opzionale”

Se la ricerca della felicità costante è come una linea infinita, l’evento negativo è ciò che interrompe questa continuità e ci fa sembrare il nostro obiettivo più lontano e di conseguenza siamo più delusi. 

Soluzioni

Impariamo a rispondere piuttosto che reagire alle emozioni è un fattore chiave per la nostra felicità. Possiamo scappare o tentare di ridurre un dolore o un sentimento negativo, ma poco serve.

La chiave è invece chiederci come possiamo utilizzare ciò che sta accadendo a nostro favore. 

Questa semplice domanda permette di aumentare la nostra comprensione degli stati emotivi e reagirvi così in modo più proficuo e utile al nostro benessere.

Rimuginazione? Scopri come fermarla

Ti è mai successo un momento in cui hai cominciato a pensare a quella cosa in particolare e non ti sei più fermato? Poco importa la ragione per la quale tu debba fare una scelta, la tua mente fatica a trovare una via d’uscita e tu rimani vittima di questo groviglio che ti schiaccia. Spesso vengono chiamati pensieri ossessivi o ricorsivi.

Si è sempre chiamata ruminazione che sia fatta sul passato, presente o futuro e quando questa diventa così forte da ostacolare la vita di tutti i giorni, possiamo parlare di dubbio patologico. Questo si insinua piano piano come un tarlo nelle nostre menti diventando sempre più grande fino ad occuparle a tempo pieno così come afferma anche la dr.ssa Kati Morton.

Come afferma il dr. Brewer si tratta di un processo che poi diviene abitudine attraverso il meccanismo di ricompensa. Adattando la sua formulazione di abitudine al nostro problema abbiamo che: 

  1. fase d’innesco ovvero la scelta o comunque la possibilità di avere più opzioni per uno stesso evento
  2. fase di processamento di tutte le informazioni quando si vagliano tutte le opzioni disponibili e le loro sfaccettature 
  3. ricompensa ossia che il processamento che porta all’illusione della soluzione sembra far diminuire l’ansia legata appunto ad una scelta sbagliata

In realtà ciò che mantiene il tarlo è proprio il cercare la soluzione ideale, assoluta, perfetta che al momento pare far diminuire l’ansia invece la fa peggiorare ad ogni risposta successiva. I pensieri ossessivi sono alimentati dalle nostre riposte.

Il dr. Brewer, Mattu e Morton, hanno fornito alcuni passi per poter uscire da questo dilemma. Questi sono stati rivisti sulla base della mia esperienza e sull’esperienza con migliaia di casi presso il centro di terapia breve strategica inoltre ho aggiunto alcune delle cose da evitare per non peggiorare il problema:

  1. cercare di distrarsi: generalmente questa è una cosa da evitare perché il distrarsi, ovvero cercare di non pensare, ottiene l’effetto contrario se applicato a questa particolare categoria di problema. Andare a fare una passeggiata, leggere, etc. servono quando il dubbio non è così pervasivo.
  2. verbalizzare il dubbio con altri: altra soluzione d evitare perché certamente noi non rispondiamo, ma cercano di farlo gli altri. Oltre a non risolvere il problema lo fa peggiorare perché alla fine non saremmo convinti nemmeno delle loro risposte e cercheremo altre persone più “esperte” e via via così ripetendo la catena
  3. consapevolizzare la ricompensa: con ciò si intende la capacità di fermarsi quando ci si rende consapevoli di essere entrati in quel vortice e per fermarlo chiedersi quale ricompensa si ha se si continua in tal senso
  4. fermare i pensieri: questa è la tecnica in assoluto più efficace. Può prendere varie forme a seconda della persona che presenta il problema A volte quindi la strategia è quella di scrivere, altre usare una frase stop, perché la terapia breve strategica costruisce la terapia su misura invece che Setting precostituiti.

6 modi costruttivi su come punire i figli senza minare la loro autostima

Riporto questo articolo della Dr.ssa Amy Morin, psicoterapeuta e autrice del libro “13 Things mentally strong people don’t do

Avere disciplina con i figli non significa farli sentire sbagliati nei confronti di loro stessi. Le punizioni che fanno vergognare i figli sono anzi inutili. Queste dovrebbero insegnare che quello che è stato fatto è sbagliato, ma senza far sentire il bambino sbagliato per quel che è come persona. Per fare un esempio frasi come “ te l’avevo detto di stare attento, sei il solito incapace”, dicono molto su cosa bisognerebbe evitare di fare.

La disciplina da impartire ai figli è sempre un argomento scottante in famiglia

  1. Evitare etichette. Qui parliamo sia di quelle negative che di quelle positive, esempio “ecco il mio piccolo scienziato”. In questo modo il bambino potrebbe non perseguire i suoi interessi nella musica, magari essendoci anche più portato. Etichette negative ripetute come “sei il solito combina guai” altro non fa che creare una profezia che si autodetermina. Il bambino costruirà un’immagine di se che non farà altro che confermare tale affermazione (n.d.a).
  2. Separare il comportamento dalla persona. Noi dobbiamo punire il comportamento facendo comunque sentire che non è il bambino sbagliato diverso è quindi dire “sei un cattivo ragazzo” da “non è stata una buona scelta”
  3. Loda gli sforzi e non i risultati. Quando diciamo “bravo hai preso 10 oggi”, il ragazzo o la ragazza può pensare che per avere una tale attenzione debba sempre avere tale risultato. Potremmo invece dire “ho visto che ti sei impegnato molto per quel compito!” rafforzando così la loro autostima e la fiducia nelle loro capacità diminuendo l’ansia da prestazione.
  4. Facciamolo apprendere anziché punire. Una cattiva punizione è peggio che una non-punizione e in questo caso è meglio insegnare lui che ci sono delle conseguenze rispetto al suo comportamento, questo l’aiuterà ad evitare lo stesso errore nel futuro. Chiaramente l’insegnamento deve essere con un linguaggio e un modo adatti all’età altrimenti si corre il rischio che il bambino non capisca.

Altre indicazioni che aggiungo sulla base della mia esperienza:

  1. Le minacce devono essere portate a termine. Le minacce a vuoto, senza conseguenze sono assolutamente inutili perché creano nel bambino l’idea che nulla può succedere in conseguenza ad un determinato comportamento. In sostanza non sortiscono alcun effetto.
  2. Evitare di fare confronti. Dire “sei come…” o “hai visto gli altri che bravi che sono” è abbastanza frustrante per un bambino e lo mette in una condizione di sentirsi sbagliato non per quello che ha fatto, ma per com’è. I bambini sono unici e vanno aiutati ad esserlo, insegnando loro il modo più utile per diventarlo nel rispetto di sé e degli altri.